Imprese e lavoratori: due facce della stessa medaglia

Imprese e lavoratori: due facce della stessa medaglia
Luglio 02 14:14 2024 Print This Article

Il mondo del lavoro e quello dell’impresa sono entrambi configurati, dalla Costituzione Italiana, quali capisaldi del nostro Paese.

Com’è noto l’art. 1 della Regina delle Fonti qualifica la Repubblica Italiana quale democratica, fondandola sul lavoro (e, quindi, anche sui lavoratori, sia pubblici che privati).

L’art. 41 Cost. definisce libera l’iniziativa economica privata, precisando che, tuttavia, essa non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale ovvero in maniera tale da recare danni alla sicurezza, alla libertà e alla dignità umana, con ulteriore previsione (comma 3) che la legge determina i programmi e i controlli opportuni, affinché detta attività (nell’economia pubblica e in quella privata) possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali ed ambientali.

Per vari decenni si è assistito, nel secolo scorso, a vere e proprie lotte di classe, fagocitate da alcune fazioni partitiche, che hanno condotto, tra l’altro, all’approvazione di importanti provvedimenti normativi, com’è a dirsi per la legge 20 maggio 1970, n. 300, più nota come Statuto dei lavoratori (legge oggi soppiantata dal cd. Jobs act), che ha (meglio: aveva) decretato il riconoscimento della tutela reale del prestatore di lavoro in caso di licenziamento illegittimo, con obbligo, incombente sul datore di lavoro, di reintegrare il dipendente dopo la sentenza di annullamento del licenziamento emessa dal Giudice del lavoro.

Di contro, seppur lo Stato abbia molte volte detto di voler tutelare le Imprese, non si sono registrati provvedimenti legislativi altrettanto incisivi e favorevoli per la categoria.

La lotta di classe, spesso, è sfociata in una poco intelligente contrapposizione tra lavoratori e datori di lavoro, visti, questi ultimi, come i nemici da combattere.

Eccezion fatta per talune Società multinazionali – che, oramai, imperversano nella dinamica del mercato corrotto – bisogna tener presente che la stragrande maggioranza delle imprese italiane (si stima circa il 98% dell’intero) sia costituita da piccole e medie imprese (si è, anzi, avanzato il neo coniato termine di micro imprese).

Tali imprese vengono portate avanti da persone normali, cioè, a loro volta, da lavoratori, perché l’imprenditore commerciale (così come quello agricolo) è, prima di tutto, anch’egli un lavoratore, come i suoi dipendenti.

D’altronde se non esistessero i datori di lavoro non ci sarebbe il lavoro e, quindi, non esisterebbero nemmeno i lavoratori, che non avrebbero un’impresa in cui lavorare.

Del pari se non ci fossero i lavoratori non ci sarebbe nemmeno il lavoro e, quindi, i datori di lavoro.

Va da sé, allora, che si sia al cospetto di due categorie assolutamente complementari l’una con l’altra, ragion per cui si profila all’orizzonte il dovere di cooperazione tra ambedue.

Orbene è indubitabile che i dipendenti debbano vivere in un ambiente di lavoro sano, sicuro, serio, armonioso e stimolante, nel rispetto della loro condizione di esseri umani prima e di lavoratori poi, ma affinchè ciò possa realizzarsi è necessario che le aziende vengano messe in condizioni ragionevoli per poter fare impresa.

Il riferimento, d’obbligo, è all’imposizione fiscale, invero spropositata, che trancia, in partenza, qualsivoglia velleità di moltissime imprese, che si vedono costrette a corrispondere allo Stato italiano continue imposte, tasse e contributi, ordinari e speciali; tale gravoso dazio, in diversi casi, si assesta al 70% del totale del ricavo imprenditoriale e va da sé che affogando le imprese nel mare magnum del peso fiscale si pervenga ad un congelamento del sistema produttivo, ad uno svuotamento delle potenzialità dei vari settori.

Un altro fattore da tenere in debita considerazione, stavolta dal lato non imprenditoriale, è rappresentato dalla speculazione sui prezzi dei beni di consumo, il cui ammontare è vertiginosamente aumentato negli ultimi tempi; ciò ha costretto e costringe i lavoratori a doversi privare dei beni più costosi o, comunque, a dover limitare i consumi e questo è paradossale, sol che si pensi al fatto che, illusoriamente e ingannevolmente, l’odierno sfrenato capitalismo consumistico, rafforzato dalla massificante e demoralizzante globalizzazione che si è voluta imporre a livello terrestre, ne ha preteso la sempre più estensione.

C’è anche un altro punto da dover tenere a mente: il made in Italy.

L’Italia, attraverso il marchio dei propri prodotti, negli anni sessanta del secolo scorso, riprendendosi da ben due guerre mondiali, era arrivata ad essere la quarta potenza economica del pianeta e senza neppure dover ricorrere all’importazione di prodotti stranieri.

L’avallo del principio di libera circolazione dei prodotti da uno Stato all’altro ha causato un indebolimento delle aziende italiane, che assistono passivamente, in alcuni settori merceologici, ad una corsa al ribasso, imposta dal sistema cinese, che può garantire costi minori dei prodotti commerciati e questo sia per il fatto che la manodopera, in terra orientale, costa notoriamente molto meno che in quella italica, sia per la ragione che, sovente, per produrre questa enorme mole di beni vengono impiegati minori, ossia vengono sfruttati ragazzini e ragazzine che, invece di essere sottoposti alle torture del dover produrre sempre di più, dovrebbero, invece, studiare a scuola o giocare a pallone o con le bambole, come si faceva fino a non molto tempo fa.

Molti prodotti posti in commercio (o che, comunque sia, si provi a mettere in commercio) risultano privi dei requisiti di base, ovverosia la sicura provenienza territoriale e, soprattutto, la composizione genuina degli ingredienti e delle materie prime, per cui a volte finisce che non si sa più nemmeno cosa mangiamo e beviamo.

L’arrivo di prodotti stranieri nel territorio italiano non è una cosa cattiva, se tali prodotti manchino in Italia (es. alcuni tipi di frutta, di verdura, di carne, di pesce, ecc.) e se siano sani, ma se tali prodotti non solo siano presenti in Italia, ma siano anche nettamente migliori, più gradevoli, più buoni e più sani (gli esempi sarebbero migliaia, perlomeno nei settori agro-alimentare e culinario, dove l’Italia è sempre stata la prima Nazione al mondo in fatto di qualità), allora non si giustifica l’importazione di analoghi prodotti stranieri, ma scadenti rispetto a quelli della nostra Penisola: quanto detto non può che ripercuotersi negativamente in danno dei produttori, dei distributori e dei rivenditori.

Il sistema, per com’è attualmente, non può reggere, specialmente sotto l’obbligata egida dell’euro, una moneta senza Stato, governata da associazioni di banchieri privati che non hanno minimamente a cuore le sorti dei cittadini, dei poveri cristi, delle persone normali, che ogni giorno cercano di sopravvivere (il che è diverso dal Vivere).

Se lo Stato non si sgancerà dal sistema capitalistico di provenienza statunitense e se non metterà questi punti in chiaro con l’Unione Europea (decidendo, al limite, anche di adottare una soluzione simile a quella britannica) i lavoratori (pubblici e privati), le imprese (piccole e medie), i cittadini (disoccupati e pensionati) se la passeranno male, sempre peggio, con l’andare del tempo.

A queste cose bisogna pensare sin da subito, questi problemi vanno risolti adesso.

Ma quindi, per ora, lo Stato italiano che fa?

Si costerna, s’indigna, s’impegna, poi getta la spugna con gran dignità.

Avv. Sandro Castro

Amministrativista – Civilista – Laburista

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