Piana degli Albanesi (Pa) – Il popolo si avviava con le bandiere rosse sulla piana, sotto il sole del primo maggio. I bambini correvano tra le rocce, le donne avevano portato il pane, gli uomini sventolavano cartelli con scritte di speranza: terra e lavoro. La banda suonava, e da Piana degli Albanesi scendevano a centinaia, tra canti e applausi. Poi un colpo. Poi un altro. Qualcuno credette fossero mortaretti, i botti di una festa. Ma il terzo, il quarto, e subito dopo la raffica, spezzarono il canto.Dalla collina, a trecento metri, arrivava il fuoco delle mitragliatrici. Un urlo si levò sulla piana: uomini e donne che cadevano a terra, la polvere, il silenzio improvviso dopo la corsa. Undici morti, decine di feriti.
Così, in un mattino di primavera del 1947, la festa del lavoro si trasformò in una strage.Portella della Ginestra entrò nella storia d’Italia come la prima pagina nera della Repubblica. E, a distanza di decenni, rimane un mistero che intreccia mafia, politica e potenze straniere.
La responsabilità venne attribuita subito alla banda di Salvatore Giuliano, il bandito di Montelepre che per anni aveva dominato le montagne tra Palermo e Trapani. Ma fin da subito la versione ufficiale mostrò crepe.Giuliano, intervistato dai giornali, cambiò più volte versione: prima disse di aver sparato per “dare una lezione ai comunisti”, poi di aver eseguito “ordini superiori”.E già allora, dietro la figura del bandito, cominciò a intravedersi qualcosa di più grande.
La Sicilia del 1947 era un’isola in bilico: i contadini chiedevano la riforma delle terre, i latifondisti e la mafia difendevano i propri privilegi, mentre la sinistra — comunisti e socialisti uniti nel “Blocco del Popolo” — avanzava nei voti.Alle elezioni regionali di aprile aveva trionfato, e la manifestazione del primo maggio era una celebrazione di quella vittoria.Troppo, forse, per chi temeva che l’isola potesse diventare un laboratorio politico rosso nel cuore del Mediterraneo.
Il giorno dopo la strage, il ministro dell’Interno Mario Scelba parlò all’Assemblea costituente. Dichiarò che si trattava di un episodio di “banditismo”, privo di significato politico.Eppure, le indagini successive non chiarirono mai i mandanti.Gaspare Pisciotta, il luogotenente di Giuliano, in tribunale disse parole che ancora oggi suonano come una condanna: “Siamo un solo corpo, banditi, polizia e mafia.”Pochi anni dopo venne trovato morto in cella, avvelenato. Giuliano stesso era già caduto — ufficialmente in uno scontro a fuoco, in realtà freddato in un casolare, forse per impedirgli di parlare.
L’inchiesta si chiuse con alcune condanne, ma senza risposte.Chi volle la strage? Chi aveva interesse a trasformare una festa di popolo in un bagno di sangue?
Per capire Portella bisogna guardare oltre il crinale siciliano.Il 1947 è l’anno in cui nasce la CIA, la Central Intelligence Agency americana. La guerra mondiale è finita, ma comincia quella “fredda”.L’obiettivo, per Washington, è chiaro: fermare il comunismo in Europa, a ogni costo.E l’Italia, paese di frontiera tra Est e Ovest, diventa da subito un terreno di battaglia politica e ideologica.
Nei mesi successivi alla strage, la CIA avvia i primi programmi di operazioni coperte: finanziamenti occulti, campagne di propaganda, sostegno a giornali, sindacati, partiti e movimenti cattolici.Documenti oggi desecretati rivelano che, già dal 1947, l’Italia riceveva in media cinque milioni di dollari l’anno per sostenere le forze anticomuniste.Un anno dopo, nel 1948, gli stessi canali finanziarono apertamente la campagna elettorale della Democrazia Cristiana contro il Fronte Popolare di Togliatti.
La Sicilia, per posizione e clima politico, era un banco di prova perfetto.Gli americani l’avevano liberata nel 1943, avevano rapporti consolidati con i notabili locali e con la mafia, e vedevano nell’isola un presidio strategico nel Mediterraneo.
Già con l’arrivo dell’AMGOT (Allied Military Government of Occupied Territories) — il governo militare alleato che amministrò l’isola subito dopo lo sbarco — i primi sindaci furono nominati direttamente dagli americani: spesso ex latifondisti, uomini d’onore o figure in odore di mafia, ma garantiti come “anticomunisti sicuri”.Fu il primo esperimento di controllo politico del territorio attraverso le élite locali, un modello che sarebbe poi tornato, in forme diverse, durante l’intera Guerra fredda.
Non esistono prove scritte di un coinvolgimento diretto della CIA nella strage di Portella, ma gli incastri temporali sono suggestivi: una vittoria elettorale della sinistra, una strage che ne stronca l’onda, un ministro che minimizza, un bandito che muore prima di parlare.
Gli storici Giuseppe Casarrubea e Mario José Cereghino, dopo anni di ricerca d’archivio, hanno ricostruito contatti tra separatisti, mafia e apparati militari americani.In quel contesto, Salvatore Giuliano avrebbe potuto essere usato — e poi eliminato — come strumento di un messaggio politico: fermare il comunismo sul nascere, a costo del sangue.
Ma soprattutto, con Portella si manifesta per la prima volta quella ombra americana che accompagnerà la storia d’Italia per decenni.Un’influenza silenziosa, talvolta ingombrante, che tornerà in molti altri misteri irrisolti: dal caso Moro, dove le piste di intelligence internazionali si intrecciano con le nostre, fino alla crisi di Sigonella del 1985, quando Bettino Craxi, per la prima e unica volta, si oppose apertamente al potere degli Stati Uniti sul nostro territorio.Un filo lungo quasi mezzo secolo, che parte da una conca siciliana insanguinata e attraversa tutta la storia della nostra Repubblica.
Portella della Ginestra rimane un caso irrisolto. Non esiste un documento che ordini la strage, ma esiste una catena di convenienze, di paure e di silenzi che la rendono più di un fatto criminale. Fu un atto politico, un avvertimento, un segnale. E soprattutto fu il primo segno che la giovane Repubblica italiana non camminava da sola: dietro di lei, nell’ombra, si muovevano potenze straniere, interessi economici, apparati segreti.Da Portella comincia una storia lunga — quella dei misteri italiani, delle stragi impunite, dei depistaggi e delle verità mancate — che attraverserà il Novecento fino agli anni della strategia della tensione.
Lì, in quella piana assolata del Palermitano, il primo maggio del ’47, l’Italia scoprì che la libertà appena conquistata aveva già un prezzo.
di Antonio D’Ascoli
(foto Davide Mauro)