Con l’avvenuta riapertura di oggi, lunedì 18 maggio, gli operatori titolari delle attività alberghiere, balneari, di ristorazione e similari, dopo aver sofferto le conseguenze nefaste del lockdown ed aver sognato la ripresa delle attività – che tra l’altro coincide, per molti di loro, con la stagione estiva per sua natura foriera di un incremento di tali attività, si trovano oggi a vivere l’angoscia di dover fare i conti con le misure di contenimento varate dalle varie autorità, nazionali e locali e volte appunto a disciplinare lo svolgimento di queste attività in sicurezza rispetto al pericolo di contagio.
Tralasciando gli aspetti – pur fondamentali ma non di competenza di chi scrive – che investono i calcoli di natura economica che ogni imprenditore deve necessariamente fare per valutare la convenienza o meno della ripresa delle attività in ottemperanza alle nuove regole, c’è un altro aspetto, non di minore importanza, che agita e preoccupa gli operatori ed è quello dello spettro delle responsabilità civili ed amministrative (ed, in casi estremi, penali) che aleggia sulle loro teste nell’ipotesi in cui un cliente dovesse sostenere di essersi contagiato mentre era ospite del loro esercizio.
Sotto il profilo civilistico – in estrema sintesi – la problematica va inquadrata nell’ambito della responsabilità contrattuale, poiché quando entriamo in uno stabilimento balneare o in un ristorante stiamo stipulando con l’esercente un contratto (anche se quasi mai in forma scritta) a prestazioni corrispettive, nell’ambito del quale la nostra obbligazione principale è quella di pagare il corrispettivo, mentre l’obbligazione principale dell’esercente è quella di fornirci la disponibilità dei locali o degli spazi in tutta sicurezza e degli altri prodotti e servizi tipici di quella specifica attività (cibo, bevande, sistemazione ecc.) di qualità quanto meno nella media e comunque commisurata al prezzo richiesto al cliente.
In questo quadro – lo si ripete, estremamente sintetico e generale – la responsabilità da inadempimento contrattuale del cliente nasce nel caso in cui egli non paghi il prezzo pattuito, mentre quella dell’esercente nasce nel caso in cui i servizi erogati (ivi inclusi l’igiene e la sicurezza) si rivelino al di sotto della media ovvero di qualità inferiore a quella promessa ovvero ancora non conformi a quanto imposto dalle normative vigenti.
Nell’ambito della responsabilità contrattuale, la regola generale è che la parte (presunto danneggiato) che lamenti di aver ricevuto un danno a causa dell’inadempimento dell’altra parte (presunto danneggiante), ha l’onere di provare l’esistenza del rapporto contrattuale (cioè che effettivamente si sia concluso quel contratto), l’esistenza del danno ed, in maniera molto attenuata, il collegamento diretto (cd. nesso di causalità) tra inadempimento contrattuale dell’altra parte e danno subìto. A fronte di ciò l’altra parte contrattuale potrà liberarsi da ogni responsabilità dimostrando di aver regolarmente adempiuto ai propri obblighi (cioè di aver fornito un prodotto o servizio di qualità pari a quella pattuita e di aver ottemperato alle normative regolanti la propria attività, anche in tema di igiene e sicurezza) oppure di non aver potuto adempiere per fatto a lui non imputabile, cioè non per propria colpa ma per il sopraggiungere di una causa di forza maggiore o per un caso fortuito. In sintesi si può affermare che, nella responsabilità contrattuale, a colui che si afferma danneggiato è sufficiente provare il preesistente rapporto giuridico da cui deriva il suo diritto di credito ed è sul debitore che ricade l’onere di provare – per liberarsi da responsabilità – che l’inadempimento dell’obbligazione sia dovuto a causa a lui non imputabile (1218 c.c.), avendo egli ottemperato a tutti i suoi obblighi: vi è, cioè, una inversione dell’onere della prova rispetto alla responsabilità extracontrattuale in cui vige la regola generale secondo la quale chi fa valere un diritto deve provare tutti i fatti costitutivi della sua pretesa (art. 2697 c.c.).
In condizioni di normalità (ante Coronavirus), tutta questa dinamica tra le parti (sempre parlando in via sintetica e generale) è piuttosto lineare. Se, per esempio, il cliente del ristorante si sente male perchè gli è stata servita una pietanza scaduta o un vino adulterato oppure cade per le scale che conducono ai bagni a causa di uno scalino rotto, così come se un cliente di uno stabilimento balneare si ferisce perchè sulla passerella di legno vi era un chiodo sporgente ed arruginito, non gli sarà difficile (in linea di massima) provare di aver concluso il contratto con l’esercente e di aver subìto il danno in quella precisa circostanza.
Ora, ai tempi del Coronavirus ed in particolare della cd. Fase 2, a ben vedere, poco o nulla cambia sotto il profilo della responsabilità dell’esercente. Tralasciando – come si diceva all’inizio – gli aspetti organizzativi ed economici relativi ai disagi, ai costi di adeguamento alle nuove regole, alla conseguente ridotta capacità recettiva ed alla ulteriormente conseguente ridotta remuneratività delle varie attività, in questa sede preme evidenziare – anche con la speranza di alleviare almeno in parte le preoccupazioni che pesano sugli imprenditori – che le nuove regole dettate dalle autorità nazionali e locali, anche in base all’intesa Governo-Regioni, e dalle linee guida INAIL-ISS non aumenteranno, di per sé, il pericolo per gli esercenti di vedersi addebitare la responsabilità di aver causato un contagio da Coronavirus.
Quello che sicuramente aumenta sono gli adempimenti che gli imprenditori saranno costretti a compiere per adeguarsi alle normative, ma non – a parere di chi scrive – la probabilità di incorrere in una condanna per procurato danno da contagio all’interno delle proprie strutture.
Al contrario – tenendo presente quanto sopra brevissimamente detto sulla responsabilità contrattuale – si può ragionevolmente ritenere che il danno da contagio sia ben più difficile da provare (da parte del cliente che pretendesse un risarcimento per tale motivo) rispetto ai danni tipici che comunemente vengono pretesi da chi ha avuto una intossicazione alimentare o è caduto su uno scalino rotto o si è tagliato su un chiodo sporgente o è stato ustionato da una parrucchiera distratta (tra l’altro in alcuni degli esempi fatti – scalino rotto, chiodo ecc. – la responsabilità dell’esercente è addirittura presunta perchè si configura un altro tipo di resposabilità che è quella del custode ex art. 2051 c.c.). In tutti questi casi (ed in mille altri analoghi) infatti, risulta molto più semplice dimostrare le circostanze ambientali e temporali in cui il danno è stato causato e da chi è stato causato. Non altrettanto facile sarà – anzi tutt’altro, a parere di chi scrive – dimostrare di aver contratto il Coronavirus all’interno di un esercizio commerciale (ristorante, lido balneare o altro), in primo luogo perchè il malessere (danno) non si manifesta immediatamente od in un lasso di tempo molto breve, bensì, come è noto, necessita di una incubazione di circa (o secondo alcuni almeno) due settimane; in secondo luogo perchè non si vede come si potrà dimostrare di non aver fatto nulla e/o di non essere stati in nessun altro luogo di potenziale contagio sia prima sia dopo essere stati a mangiare in quel determinato ristorante (ad esempio) così da poter dimostrare che l’unica occasione di contagio sia stata quella; in terzo luogo perchè ogni pretesa di tal genere potrà facilmente essere neutralizzata dall’esercente dimostrando di essersi attenuto, appunto, a tutte quelle nuove regole precauzionali (sanificazione, igiene dei clienti e del personale, rilevazione della temperatura corporea, dispositivi di protezione, distanziamento ecc.) che, così come incidono negativamente nella riorganizzazione delle attività, avranno una incidenza positiva nel senso di funzionare da esimente di responsabilità nel caso in cui ci si dovesse difendere da un preteso risarcimento danni per contagio Coronavirus.
di -Avvocato Nicola De Pascale
Patrocinante in Cassazione