Quando nel 2011 la Fiat uscì da Confindustria, il segnale della crisi di rappresentanza del settore industriale e delle imprese maggiori del Paese, cominciò ad emergere in tutte la sua drammaticità.
Da allora ad oggi, la decadenza è stata progressiva e costante con un’ organizzazione – quella di Confindustria – sempre più “elefantiaca “, con un’ apparato pesante incapace di saper leggere le reali esigenze del mondo produttivo e di sostenerne nelle sedi opportune gli interessi.
In una società ed in un’ economia sempre più fluide dove è necessario cambiare forma – così come fa l’acqua a seconda delle superfici che attraversa – si affronta la realtà ancora con schemi e categorie molto rigidi che non sono più adeguati ai problemi del mondo del lavoro che cambiano di volta in volta, settore per settore, azienda per azienda.
Anche la qualità del management di Confindustria ormai è sempre più al ribasso con i quadri sempre più confusi con la politica o addirittura costituiti – per lo più – dai “rampolli” delle grandi aziende che però in azienda non ci sono stati mai.
In questo stato dell’arte sempre più crepuscolare, ecco che della Confindustria che abbiamo sempre conosciuto, resta ben poco: oggi, per molti, rappresenta una sorta di club d’ elite, ma che non ha nulla a che vedere con la soluzione dei veri problemi delle imprese.
Ed in questo vuoto si inseriscono – fortunatamente- altre organizzazioni che stanno recuperando spazio e consensi, perché si presentano in modo molto più agile, flessibile, e vicini a quelle che sono le preoccupazioni concrete degli operatori economici. Le loro strutture si radicano sui territori, dando grande spazio alla fase dell’ascolto, del confronto, della condivisione.
L’ Italia, come il resto del mondo, anche in considerazione della crisi generale di tutte le istituzioni e le sovrastrutture che hanno perso il loro ruolo di guida, si salveranno solo con una grossa spinta dal basso, piuttosto che con “scialuppe di salvataggio” (scarse ed inadeguate) calate dall’alto.