Accanto a me nello stanzone vi era un pezzo di carne umana, io credevo che fosse un feticcio perché le monache si fermavano a pregare, credevo che fosse una credenza delle monache. Lo curavano, lo sbarbavano, lo pulivano, però ero certo che fosse un pezzo di carne di fattezze umane, ma non una persona. Mi terrorizzava che avessero questo culto, il più profondo terrore mio era che facessero esperimenti per mantenere in vita i morti e che io non trovassi neppure la pace del Nulla, ma fossi costretto a quella condizione eternamente. Se dovevo morire, volevo morire, non assistere alla mia vita da morto.
Questo pezzo di carne con forme umane aveva degli occhi serrati, un corpo assolutamente fiacco e lo giravano, lo muovevano a loro volontà gli infermieri, come un involucro, una pezza, uno straccio di carne. Io ero convintissimo che fosse un culto religioso, gli prestavano grandissima attenzione, pregavano.
Quando seppi che era un uomo che non si svegliava dal coma, un uomo vero, e che io ero stato nelle medesime condizioni, impietrii. Ma io mi ero svegliato. A che si riduce un essere umano: uno straccio, una cosa che può essere buttata dove si vuole. Mi venivano in mente ossessivamente i corpi dei reclusi nei campi di concentramento, gettati come letame secco. Dunque in quel corpo disanimato c’era ancora la vita, che non riusciva a tornare cosciente. Io ero cosciente, però sapere com’ero stato, mi impietriva, ripeto.
Per giorni sono rimasto nel reparto rianimazione, senza voce, con la maschera dell’ossigeno, gli infermieri spesso mi legavano. Ciò mi era sommamente doloroso, sentivo una doppia impotenza, finché mi hanno spaccato il collo ed è uscita fuori una massa gelatinosa, collosa, che bloccava tutto, anche la parola. istantaneamente ebbi la parola e finì quel terribile dialogo senza capirci, io sillabavo tentavo di dire, ma non capivano. La mancanza della parola isola, isola e rende ancora più soli chi è già solo. Ebbi la parola istantaneamente appena uscì fuori quella massa e dissi qualcosa spontaneamente, e da quel momento parlo.
Sono rimasto in rianimazione credo dieci giorni o quindici, finché mi hanno portato alla riabilitazione.
Io non so se non ho più il Covid, ora l’importante è ritrovare l’uso delle gambe. Per dei giorni accanto a me. C’era un signore di un decennio più giovane, non ci siamo scambiati una parola, un saluto, solo lui solo io. Si è aggravato, diceva che gli mancava il respiro, e non l’ho più visto. Oggi un’infermiera mi dice che l’hanno
dimesso. Così, ciascuno nella sua solitudine, con la sua vita e la sua morte.
Il terremoto di Messina, cose e uomini ridotti in polvere, il mare che si affossa e poi colma se stesso, si scava e poi unisce gli orli e affoga tutto: io sono lì, tra il mare e la città distrutta. Il palazzo dei miei antenati a Gualtieri Sicaminò al centro del paese. Vi è un terremoto, sono bambino, una domestica è ferita, vedo ancora il sangue. Se vuoi vivere devi vivere in queste condizioni, questa è la condizione della vita. Non farti illusioni, terremoto, sconquassi del mare, ad ogni situazione è legata una preoccupazione, tutto è ansia, pericolo, la vita cambia da un’istante all’altro.
Non so ancora se sono guarito, vivo così, sapendo e non sapendo, cercando di capire. Vi sono infermieri che ti confortano, altri che ti accasciano.
Io dovevo cantare, ma la malattia me l’ha impedito. Un uomo politico, e anche uomo d’affari, entra nella vicenda, vuole fare acquistare tutti i miei libri e mi assegna un vitalizio, ma non è ben concepito il modo. Mi mostra la sua grande impresa. Vi sono persone che mi avversano, che non vogliono che io canti e pubblichi libri, e nelle mie fantasticherie esistono tali combattimenti, tutti immaginari, appunto ma realissimi. Li ho vissute come si vive la vita reale, di più, anzi.
Se vuoi vivere, devi vivere in queste condizioni, questa è la vera condizione della vita, solitudine e preoccupazione. Non metterti in balia degli altri, sei già in balia della Natura.
Mi salgono alla riabilitazione, devo riutilizzare le gambe, che non mi sostengono, sono dimagrito, ho la barba, non mi vedo da mesi. Ho patito l’insonnia e ancora la soffro. Tre giorni sono rimasto ad occhi aperti,
ma curiosamente non ero stanco. Qualcosa nel cervello mi faceva rimanere desto, impediva la stanchezza, del resto il cervello si era e si è come chiuso, la parte destra è in difesa da ogni emotività, da ogni sensazione. Credo che si scatenasse sarebbero eventi talmente clamorosi che mi devasterebbero, per cui si è creata questa difesa che mi dava e mi dà insonnia, una volontà di non dormire, non capisco perché, ma è
come se dovessi rimanere sempre vigile, non abbandonarmi; contribuiva a questa situazione e contribuisce una stranezza, che è quella di lasciare le luci accesissime ed io che non sopporto uno spiraglio di luce subisco questa situazione.
Penso che se recupererò le emozioni, ci sarà dentro di me un uragano. Tutto ciò che ho messo in uno scrigno mi invaderà e questo non credo che sarà un bene per me. Intanto mi sto difendendo maniera o meglio il corpo, la mente si difendono.
Altro momento che impedisce il riposo è l’evacuazione. Di solito purtroppo qualche panno entra nella
fessura anale e impedisce il venir fuori degli escrementi o dell’aria e ciò è un tormento che disgraziatamente non riescono a capire. Ora ad esempio, il trenta Novembre, sono totalmente bloccato, gli escrementi tentano di uscire ma il panno li ferma. Invece ho risolto la questione urinaria e pare che abbia risolto anche la questione respiratoria. Si passano ore su queste faccende. L’incubo dell’Ospedale è il tempo a vuoto, il tempo come tempo proprio l’idea del tempo, il pensiero del tempo, la coscienza del tempo. Uno fissa la parete e pensa che il tempo passa, ma questo passare del tempo è lunghissimo, alterato, mezz’ora sembra mezza giornata. C’è una difficoltà a valutare il tempo per quel che è, sembra enormemente più
lungo, sicché credevo di aver passato un giorno avendo passato soltanto qualche ora. Il tempo a vuoto e la coscienza del vuoto, la mente non ha una collocazione, estende il momento, i minuti e li fa sembrare ore e le ore le fa sembrare giorni; sicché non soltanto vi è il vuoto, ma un lunghissimo vuoto e questo esacerba la situazione mentale. Come uno che sta in un deserto, cammina e vede deserto, cammina e vede deserto, cammina e vede deserto, o nell’Oceano Indiano senza ancore e porti e vede lo sconfinato mare e altro mare e altro mare, e non finirà di vedere mare, non finirà di vedere deserti e il tempo come tempo, ma come tempo infinito e vuoto.
Ho bisogno di tornare a casa, di vedere qualcosa che già conoscevo che mi era quotidiano. La estraneità di questi momenti, di questi giorni è pesantissima da sopportare. Non conta di stare su una sedia, di non poter camminare, voglio rivedere il mio tavolo, l’albero vicino alla finestra e le foglie che si muovono al minimo vento, il divano, non so che accadrà quando e se uscirò da qui, ma se devo morire preferisco morire a casa mia, rivedere almeno per qualche giorno la vita come la vivevo. E’ come l’ultimo desiderio di un condannato a morte, rivedere la mia abitazione e anche l’abitazione di mia madre e di mia sorella a Messina: voglio capire se sono stato sradicato o vi è ancora qualcosa da cui attingere. Sono nello spazio vuoto e nel tempo vuoto e volo nel Nulla, devo in qualche maniera ritrovare chi sono stato, adesso non sono più io, sono una coscienza vuota del tempo vuoto.
Meglio la tragedia che il Nulla. Non so che accadrà quando tutte le emozioni si libereranno in me, forse questo vuoto è la difesa dall’uragano che potrebbe scatenarsi e che viene sigillato, non so. Ora sono nessuno, sono coscienza e basta. Vorrei tanto dormire, abbandonarmi al sonno, alla fiducia del sonno, ad un sonno
fiducioso e qualcuno accanto che mi sorvegli il sonno. Voglio dormire, chissà se riuscirò a dormire!
di Antonio Saccà