Faccio seguito alle brevi riflessioni già svolte, qualche giorno fa, sulla responsabilità civile degli operatori economici rispetto all’eventuale contagio dei propri clienti, per affrontare (sempre brevemente) un altro tema che preoccupa i datori di lavoro e sul quale ho potuto constatare una notevole confusione e, talvolta, addirittura non corretta informazione finanche nei programmi in onda sulle maggiori reti televisive nazionali. Il tema è quello della equiparazione della infezione da COVID-19 del dipendente all’INFORTUNIO SUL LAVORO, con conseguente potenziale responsabilità civile (e penale) del datore di lavoro. Tale equiparazione, ed il conseguente trattamento indennitario da parte dell’INAIL, trova effettivamente la sua fonte nell’art. 42 comma 2 del D.L. n. 18 del 17 marzo 2020 convertito in Legge n. 27 del 24 aprile 2020. La norma citata dispone – per quanto di interesse in questa sede – che “nei casi accertati di infezione da coronavirus (SARS-CoV-2) in occasione del lavoro, il medico certificatore redige il consueto certificato di infortunio e lo invia telematicamente all’INAIL che assicura, ai sensi delle vigenti disposizioni, la relativa tutela dell’infortunato”. Da qui la confusione e mala informazione, con conseguente preoccupazione dei datori di lavoro. Ebbene, va subito chiarito che tale preoccupazione non ha ragione di esistere per i datori di lavoro che abbiano assolto a tutti gli obblighi previsti dalle norme vigenti per sanificare e rendere sicuri gli ambienti di lavoro, attuando tutti i protocolli dettati per la salute e la sicurezza dei lavoratori nello svolgimento delle attività lavorative all’interno dei luoghi di lavoro. Del resto lo stesso INAIL è intervenuto a fornire, sull’argomento, gli opportuni chiarimenti che, già da soli, basterebbero a tranquillizzare i datori di lavoro ossequiosi delle norme in materia e per questo reputo molto grave e deprimente che, anche sulle maggiori reti televisive nazionali, si dia spazio ad una informazione non corretta, incurante delle preoccupazioni che ciò può generare in chi, dopo i sacrifici fatti in due mesi di lockdown (e quelli ancora da fare), non vede l’ora di ricominciare a produrre, ma senza ulteriori “spade di Damocle” sulla testa. Gli interventi dell’INAIL a cui mi riferisco sono la circolare n. 13 del 3 aprile 2020 ed il comunicato del 15 maggio 2020. La circolare n. 13 del 3 aprile 2020 dispone che “la norma ex art. 42 comma 2 D.L. n. 18 del 17.3.2020 (CURA ITALIA) chiarisce alcuni aspetti concernenti la tutela assicurativa nei casi accertati di infortunio da nuovo coronavirus (SARS-CoV-2), avvenuti in occasione di lavoro. In via preliminare si precisa che, secondo l’indirizzo vigente in materia di trattazione dei casi di malattie infettive e parassitarie, l’INAIL tutela tali affezioni morbose inquadrandole, per l’aspetto assicurativo, nella categoria degli infortuni sul lavoro”. Sono destinatari di tale tutela, quindi, i lavoratori dipendenti e assimilati, lavoratori parasubordinati, sportivi professionisti dipendenti e lavoratori appartenenti all’area dirigenziale. La circolare chiarisce anche che, nell’attuale situazione pandemica, la tutela riguarda innanzitutto gli operatori sanitari esposti ad un elevato rischio di contagio, ma anche altri lavoratori che svolgono attività che comportano il costante contatto con il pubblico come – in via esemplificativa ma non esaustiva – operatori in front-office, cassieri, addetti alle vendite/banconisti, personale non sanitario operante all’interno degli ospedali con mansioni tecniche, di supporto, di pulizie, operatori del trasporto infermi ecc.. Per tutte tali figure – e per altre residuali dove manchi l’indicazione o la prova di specifici episodi contagianti ma vi siano indizi “gravi, precisi e concordanti” – vige una “presunzione semplice” di origine professionale del contagio. La “presunzione semplice” è una precisa figura giuridica, e significa che, in presenza di determinate condizioni, si “presume” un certo fatto o una certa condizione o un certo nesso di causalità, fino a “prova contraria”: quindi il datore di lavoro il cui dipendente si dovesse ammalare di coronavirus, potrà sempre dimostrare che non è stata l’attività o il luogo di lavoro la causa del contagio perchè le condizioni lavorative nella propria azienda sono pienamente conformi alle norme di salute e sicurezza sul lavoro, ivi comprese quelle “anti-coronavirus”. E’ opportuno spiegare cosa si intende per contagio avvenuto “in occasione di lavoro”, presupposto della indennizzabilità dell’infortunio da parte dell’INAIL. La Cassazione (sent. n. 9913 del 13.5.2016 fra le altre) ha chiarito che essa comprende tutte le condizioni temporali, topografiche e ambientali in cui l’attività produttiva si svolge e nelle quali è imminente il rischio di danno per il lavoratore, sia che tale danno provenga dallo stesso apparato produttivo e sia che dipenda da situazioni proprie del lavoratore. Ed infatti nell’ambito dell’infortunio sul lavoro è ricompreso anche il cd. “infortunio in itinere”, cioè quello in cui il lavoratore incorra mentre si reca o mentre ritorna dal lavoro. E’ evidente che la “presunzione” di contagio da COVID-19 nel caso di “infortunio in itinere” sarà ancora più debole e facilmente smontabile con la prova contraria fornita dal datore di lavoro. In definitiva si può ritenere che (salvo in casi specifici quali i medici, gli infermieri ecc. che abbiano lavorato a contatto diretto con ammalati di coronavirus o comunque in strutture sanitarie che ospitano quegli ammalati, casi in cui la “presunzione”, pur rimanendo “semplice”, cioè passibile di prova contraria, è sicuramente molto “rafforzata”) non sarà semplice dimostrare che un lavoratore si sia ammalato sul posto di lavoro e meno ancora “in itinere”, perchè ricadrà sul lavoratore l’onere della prova, cioè sarà il lavoratore a dover dimostrare di essersi ammalato sul posto di lavoro a causa del fatto che il suo datore di lavoro non ha ottemperato alle norme di sicurezza e prevenzione; ciò, naturalmente, in via generale, dovendosi sempre valutare caso per caso le specifiche circostanze del contagio, soprattutto con riferimento alla tempistica con cui si siano manifestati i sintomi. Il comunicato INAIL del 15 maggio 2020 è stato poi molto chiaro sull’argomento, precisando senza mezzi termini che dal riconoscimento del contagio come infortunio sul lavoro non discende automaticamente l’accertamento della responsabilità civile o penale in capo al datore di lavoro. Infatti, sono diversi i presupposti per l’erogazione di un indennizzo INAIL da infortunio sul lavoro e quelli per il riconoscimento della responsabilità civile e penale del datore di lavoro che non abbia rispettato le norme a tutela della salute e sicurezza sul lavoro. Questo tipo di responsabilità deve essere rigorosamente accertata, con criteri totalmente diversi da quelli previsti per il riconoscimento del diritto alle prestazioni assicurative INAIL, perchè per la sua esistenza devono ricorrere la colpa (o addirittura il dolo) del datore di lavoro. Quindi – continua l’INAIL – il riconoscimento dell’infortunio da parte dell’Istituto non assume alcun rilievo per sostenere l’accusa in sede penale, ove vige il principio di presunzione di innocenza fino a prova contraria, che dovrà essere fornita dal Pubblico Ministero; così come neanche in sede civile il riconoscimento della tutela infortunistica rileva ai fini del riconoscimento della responsabilità civile del datore di lavoro, per la cui sussistenza bisognerà fornire la prova della sua colpa (o del suo dolo) nell’aver causato l’evento dannoso (contagio). Infine, sia chiaro che solo la prova della colpa (o del dolo) del datore di lavoro darà diritto all’INAIL – che nel frattempo, all’esito dell’attività istruttoria, dovesse aver riconosciuto la prestazione assicurativa – di esercitare le azioni di regresso (rivalsa o surroga) nei confronti del datore di lavoro colpevole
di -Avvocato Nicola De Pascale
Patrocinante in Cassazione