by fastadmin | 17 Ottobre 2025 13:35
La recente legge 26 settembre 2025, n. 144, e il relativo esercizio analitico del CNEL, riaprono un tema cruciale per l’ordinamento del lavoro italiano: quello del criterio di rappresentatività e applicazione dei contratti collettivi nazionali di lavoro (CCNL). Tuttavia, il sistema oggi utilizzato per determinare quali contratti siano “maggiormente applicati” si rivela obsoleto, poco trasparente e sostanzialmente non democratico, in quanto fondato su parametri statici e su una logica di consolidamento dello status quo, piuttosto che di apertura alla pluralità e all’evoluzione delle relazioni industriali.
Il meccanismo attuale, basato prevalentemente su dati storici di applicazione e su una rappresentanza sindacale e datoriale formalmente riconosciuta ma non sempre effettivamente rappresentativa, finisce per premiare i contratti “tradizionali” firmati dai sindacati confederali maggiori, escludendo o marginalizzando decine di CCNL innovativi, spesso migliorativi in termini retributivi, di welfare e di tutele complessive.
È necessario ricordare che l’applicazione effettiva di un contratto collettivo non dipende solo dalla sua qualità intrinseca o dal suo valore economico, ma anche — e soprattutto — dalla capacità di farlo conoscere alle imprese e ai lavoratori. La diffusione di un CCNL richiede tempo, strumenti informativi adeguati e il riconoscimento istituzionale del diritto alla pluralità contrattuale.
Escludere o ridimensionare i contratti “minori” in base a criteri quantitativi di mera applicazione equivale, dunque, a negare un principio di pari dignità tra le fonti di contrattazione e a impedire una reale concorrenza virtuosa tra modelli contrattuali.
Molti dei CCNL oggi considerati “maggiormente applicati” risultano in realtà insostenibili sotto il profilo della coerenza retributiva e della giustizia sociale, spesso caratterizzati da minimi tabellari ormai distanti dai livelli di vita reali e dalle esigenze di sostenibilità economica dei lavoratori. Paradossalmente, questi contratti vengono mantenuti in posizione dominante proprio grazie a un sistema che congela la rappresentanza e impedisce il rinnovamento.
Eliminare o delegittimare i nuovi contratti significa, di fatto, egemonizzare il mercato della contrattazione, mantenendo in vita un assetto oligopolistico e non più aderente alla realtà economica e sociale contemporanea. Ciò non tutela i lavoratori, ma limita la conoscenza dei loro diritti ai soli strumenti già applicati, impedendo l’affermazione di contratti applicabili e potenzialmente più equi.
Anche dal punto di vista delle verifiche ispettive (INL, INPS, ecc.), l’imposizione di un unico parametro di “maggior applicazione” rischia di introdurre un criterio arbitrario e riduttivo, che non considera la varietà dei contratti regolarmente depositati e legittimi, ma solo quelli più noti o statisticamente prevalenti.
Questo approccio non aiuta la certezza del diritto, bensì produce un appiattimento delle condizioni lavorative e un ostacolo alla libera contrattazione collettiva garantita dalla Costituzione.
Il CNEL, in quanto organo di rappresentanza delle forze sociali e di promozione del dialogo tra i corpi intermedi, dovrebbe invece incentivare la pluralità contrattuale, sostenendo la diffusione e la conoscenza di tutti i CCNL depositati, valorizzando quelli innovativi e migliorativi, non “tarparne le ali” basandosi su dati storici che non riflettono la reale evoluzione delle dinamiche produttive e sociali.
Solo attraverso un sistema di riconoscimento dinamico e partecipativo della contrattazione collettiva sarà possibile garantire una retribuzione davvero proporzionata e sufficiente, come previsto dall’articolo 36 della Costituzione, e una rappresentanza realmente pluralista, come richiesto dall’articolo 39.
di Claudio Armeni
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