by fastadmin | 7 Febbraio 2019 19:52
Quando Antonio Genovesi inizia le sue lezioni dalla cattedra di economia nel 1754, Gaetano Filangieri ha appena un anno.
Nella sua pur breve vita – morirà nel 1788 – Filangieri, discendente dei nobili principi di Arianello, esprime una critica serrata e radicale al sistema feudale nell’opera a cui ha dedicato la vita intera: la “Scienza della legislazione”, divisa in sette tomi di cui cinque pubblicati. In questa immensa opera affronta le tematiche amministrative, tributarie, finanziarie, imprescindibili e irrimandabili per avviare un sistema di riforme che dia vigore alla spenta economia dello Stato, spazio alle produzioni e al loro commercio, benessere, diritti e felicità alle popolazioni rurali, affrancandole da pesi e vincoli feudali antistorici e da privilegi ecclesiastici.
Il testo di Filangieri non affronta solo le leggi economiche, finanziarie e politiche che devono porsi alla base di una società nuova, più equa e giusta, ma mette in particolare rilievo i temi dell’educazione e dell’istruzione, fattori che Filangieri ritiene vitali e primari per promuovere in uno stato moderno un effettivo progresso e una fondata civilizzazione delle disagiate e martoriate plebi rurali.
Com’era del tutto prevedibile, in un’epoca di forti contrasti, tra tensioni illuministiche e resistenze baronali, le tematiche affrontate e le riforme proposte sono da un lato accolte in tutta Europa con un consenso vastissimo e, dall’altro, avversate e contrastate con aspre critiche provenienti per lo più dagli ambienti più retrivi e conservatori dello stesso Regno di Napoli.
Ciò non impedirà a Filangieri, nel 1787, ultimo anno della sua breve e intensa vita, di essere chiamato dal ministro borbonico inglese John Acton – preferito della regina Maria Carolina – a far parte del Supremo consiglio delle Finanze, dove lavorerà alacremente a tradurre in realtà le idee professate, fianco a fianco con Giuseppe Maria Galanti, Domenico Grimaldi, Melchiorre Delfico e Giuseppe Palmieri.
Con Filangieri, dunque, ben diversamente dal Genovesi, i problemi economici e politici che bloccano la società e otturano l’economia sono tutti sviscerati, messi a nudo con estrema chiarezza, spiegati e illustrati nei dettagli, senza compromessi, senza tema di affrontare inimicizie potenti, nella più totale fiducia che i tempi siano maturi per un cambiamento che gli sovrani illuminati, Maria Carolina e Ferdinando IV di Borbone, auspicano per contrastare la protervia baronale.
Nel sistema di riforme proposto da Filangieri non esistono spiragli per anacronistiche e inopportune salvaguardie di abusi feudali e di privilegi ecclesiastici: il processo di sviluppo dell’economia, le tappe della civilizzazione del corpo sociale, il benessere e la felicità delle popolazioni passano ineluttabilmente attraverso l’abolizione di leggi, usi, consuetudini, mentalità che hanno permesso la divisione netta, classista e razzista, della società tra proprietari e non proprietari («mercenari»):
«Per la disgrazia comune dell’Europa, per un difetto enorme di legislazione, la classe de’ proprietari non è che un infinitamente picciolo, relativamente a quella de’ mercenari. Ora da questa sproporzione deriva il difetto della sussistenza nella maggior parte de’ cittadini, che sono quelli che compongono la classe de’ mercenari […] Ecco la causa della miseria nella maggior parte, ecco il difetto della sussistenza nella classe de’ non proprietari…»
D’altronde, come può esserci progresso tecnico, sviluppo economico, aumento della produzione agricola, libero mercato, frazionamento dei latifondi e proprietà contadina, capacità d’investimento dei contadini con relativo benessere, se la proprietà terriera è nelle mani «d’un beneficiato, che non può avere alcun interesse nel migliorare un fondo che non può trasmettere ad alcuno, né a seminare o piantare per una posterità che non gli appartiene?»
Feroce l’attacco frontale di Filangieri ai poteri giurisdizionali dei baroni amministratori di feudi, che ancora affidavano vergognosamente la giustizia a magistrati da loro scelti e – appunto per questo – alle loro strette dipendenze. Questo genere di giudice è definito senz’appello «un miserabile e vile mercenario del barone» da Filangieri, che andando avanti nel giudizio impietoso delinea sempre più chiaramente questa figura come quella che ha il solo interesse di «profittare, quando più si può, della sua carica, ed aderire ciecamente a’ capricci del barone… »
Nel 1788 Filangieri scriverà il celebre «Parere presentato al Re sulla proposizione di un affitto sessennale del così detto Tavoliere di Puglia». Sin dalle prime pagine l’economista manifesta apertamente, destando lo sconforto di Delfico e Galanti propensi per la definitiva assegnazione delle terre ai locati, di essere favorevole all’affitto sessennale, perché convinto che negli Stati in cui «vecchi mali ed antichi errori opprimono il popolo», le novità per riuscire utili ed eseguibili non possono essere disgiunte da un sistema complessivo che abbia piena cognizione dell’origine dei «mali» stessi. Perciò – secondo Filangieri – le sole proposte possibili in relazione al Tavoliere, percorribili senza correre rischi ed andare incontro a mille incognite, «si riducono a quelle poche operazioni le quali, senza spezzare e scomporre l’erronea catena, né ingentiliscono soltanto alcuni anelli». E’ in quest’ottica prudente che si configura la sua proposta a sostegno dell’ affitto sessennale.
Non che in Filangieri esistano aperture alla tutela degli eccessi feudali e alle concessioni ecclesiastiche, è che Filangieri vede i passaggi del processo di sviluppo economico e le fasi della civilizzazione delle plebi rurali attraverso un sistema complessivo e organico di riforme e non tramite singoli interventi decontestualizzati.
Filangieri, tuttavia, rimarrà sempre più convinto che le terre del Tavoliere in mano a pochi «beneficiati» siano la vera causa della miseria dei non proprietari «mercenari» e dello spopolamento della Daunia.
Lo storico Raffaele Colapietra interpreta il parere di Filangieri come l’unica soluzione possibile per un passaggio che dall’affitto sessennale avrebbe portato il locato alla definitiva enfiteusi perpetua, senza correre il rischio della «paventata possibilità che della censuazione beneficiassero i soli pugliesi, e peggio ancora, i soli capitalisti, con la dannosa esclusione degli abruzzesi».
di Michele Eugenio Di Carlo
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